Meaning/Less #3: MI RICORDO DI UN RICORDO
Il tempo che passa in Last Night in Soho, É stata la mano di Dio, French Dispatch, Get Back, Tick Tick Boom e West Side Story
Molti dei più grandi esempi di intrattenimento degli ultimi mesi hanno a che fare con la necessità di fare a pugni o abbracciare il passato. Artisti e autori stanno cominciando a rispondere creativamente all’apocalisse di nostalgia che sembra inzuppare ogni centimetro quadro della nostra cultura (occidentale): l’effetto memoria é al centro di un dialogo morale, personale e creativo, oltre che semplicemente storico.
Se fino a un giorno fa le nostre piccole nostalgie quotidiane erano ordinatamente disposte per data nei nostri Rullini o nelle Memories di Facebook, a portata di edit/censura/modifica, ora sono i più grandi cineasti del mondo a portare il discorso sottilmente o meno sui nostri schermi di ogni dimensione.
Vediamo cosa é successo a riguardo in
LAST NIGHT IN SOHO di Edgar Wright
É STATA LA MANO DI DIO di Paolo Sorrentino
THE FRENCH DISPATCH di Wes Anderson
THE BEATLES: GET BACK di Peter Jackson
…TICK TICK BOOM di Lin Manuel Miranda
WEST SIDE STORY di Steven Spielberg
Tutti film consigliatissimi, tra l’altro.
Ah, ci sono parecchi spoiler.
LAST NIGHT IN SOHO
L’ultima opera di Edgar Wright, il giovane regista più amato dagli altri registi, é un ordigno esplosivo d’amore incondizionato non solo per la storia che vuole raccontare, ma per cinema stesso come forma d’espressione.
Eloise (Thomasin McKenzie) sogna Londra e il futuro da stilista armata dei sogni e della musica della madre, e Wright segue il passo impregnando il suo stile di ispirazioni da Bava ai weirdissimi film britannici degli anni 60.
Ma il buon Edgar sa che il suo non é solo un omaggio ma é anche un interrogare i suoi maestri: i mezzi e la consapevolezza gli permettono una messa in scena più pulita di quella dei film a cui pesca, del resto, ma il suo divertimento sta nel ridare una forma nuova al passato e proiettarlo nel presente con il proprio tocco - esattamente come il vestito rosa “copiato” da Eloise dalle sue visioni di Sandy.
Una chance di reinventarsi nuova vestendosi dei veli del passato, diventa ossessione, poi condanna, e infine la novità.
Ogni fibra di questa pellicola urla che nessuna forma di passato vada abbracciata ciecamente, che la nostalgia é una trappola in cui cadiamo proprio mentre pensiamo di stare (ri)trovando noi stessi. Lo specchio, letterale e figurato, é la forma più ossessiva e ossessionante di questo film: gratifica, svela, inganna, ci si aggrappa e ci proietta nell’abisso, ci dá speranza.
Che il cinema sia uno specchio che funziona esattamente allo stesso modo di quelli di Wright lo sappiamo, che la nostalgia sia una trappola pure (come sa TUTTA l’industria dell’intrattenimento), ma non era cosí banale farci uno statement cosí articolato.
É STATA LA MANO DI DIO
Paolo Sorrentino parrebbe essere un cineasta - ma che bella parola - facilmente etichettabile e difficilmente apprezzabile. E viceversa. La semplicitá con cui abbia, nel giro di un paio d’anni appena, deciso di girare i tacchi e cambiare in modo cosí profondo il suo approccio al cinema è quasi disarmante, soprattutto quando il risultato è probabilmente la cosa più brutale ed emozionante che abbia mai fatto.
Sorrentino ha sempre lavorato Napoli in maniera più o meno palese nell’impasto dei suoi film, e guardando É stata la mano di Dio é ancora più chiaro quanto l’indivisibilitá di onirico e reale sia il più autentico tratto, nella sua interpretazione almeno, della napoletanità (per dirla molto male) finalmente palese che unisce tutte le sue produzioni precedenti.
É stata la mano di Dio é una messa in fila e un editing a fini drammaturgici del passato. Avvolge i suoi aspetti più nostalgici attorno ai momenti più grotteschi e surreali (ma autenticissimi), mentre avanza a lenti passi verso il succo della questione: fare i conti con i se stessi del passato.
Esattamente come pochi mesi fa aveva fatto Dune, con Villeneuve finalmente libero di mettere in scena la sua visione di sé stesso inflessibile ed esigentissimo adolescente, Sorrentino pulla una Desmond (mi si consenta) e viaggia nel tempo dentro al se stesso di 35 anni prima. E lo fa per rammentarsi la direzione, non tanto il percorso (che ormai il montaggio interno della mente ha giá modificato, se non ammorbidito, sicuramente alterato con quelle sovrapposizioni oniriche). Non ti disunire é un invito ampissimo e brutale, impietoso, che gratta all’anima di ogni uomo e soprattutto di ogni artista, e di ogni adolescente sognatore che si risveglia nel corpo di un adulto stanco.
THE FRENCH DISPATCH
Vi avverto subito, non parleremo della proverbiale ossessione per la nostalgia di Wes Anderson perché non ci credo neanche per un secondo che quella lí sia nostalgia. Anzi, The French Dispatch é un altro esempio di ricostruzione, di world-building, di metaverso tanto per usare una parola che ci torna comoda in SEO. Dai,Wesaverso suona bene.
Il Wes degli Anderson fa una vera e propria curation di feticci europei e, per farla molto sintetica, vintage cosí da creare una realtá che non ha nulla di fedele e tutto di sensuale. É un mondo di finzione funzionale al suo modo di vedere/leggere/digerire il mondo (infatti qui c’è un giornalista cieco che scrive con gli occhi degli altri, che forse é l’idea più meta-cinematografica ever), evocarne un sapore sintetizzato ma non sintetico. Prendere i mattoni della realtá, riassemblarli a propria immagin(azione) e ri-sofisticare il tutto artatamente. Parlando più strettamente di questo film, l’inno Aline composto in un francese non esattamente native-speaking di Jarvis Cocker é un esempio preciso di questo continuo processo di ricostruzione e, un briciolo, palese falsificazione. Ci sono dei risvolti nostalgici? Forse, ma non sono il punto.
É in molti sensi un esercizio molto simile a quello fatto, in chiave più satirica, dai Simpson. E non é una totale coincidenza che in certi frangenti le due tipologie di umorismo coincidano (in questo film, il prologo di Owen Wilson e forse i momenti animati dell’ultima sezione).
Il passo in avanti in The French Dispatch é che il film stesso diventa una celebrazione di questo stare in sospeso tra due principi di tempo e realtá (uno effettivo, l’altro ricostruito), mettendo al centro una platea di giornalisti sgangherati e la piena consapevolezza che ogni tentativo di raccontare il tempo e la realtá sono inevitabilmente un tradimento (come le traduzioni), un gioco di scatole erte da vari lettori/scrittori che si avvicendano e dalle zone inesplorate che le storie stesse nascondono.
THE BEATLES: GET BACK
Avete presente i viaggi nel tempo? Fino al 24 novembre 2021 non erano possibili. Poi é successo. Peter Jackson, dopo l’invenzione dei film tratti da romanzi praticamente infilmabili, ha inventato il viaggio nel tempo.
Abbiamo parlato di re-editing della memoria e di ri-invenzione del tempo. Peter Jackson, ormai lo saprete, ha preso piú di 60 ore di materiale e le ha ricostruite atomo per atomo in pixel per pixel. Non c’é stato nulla di intentato, e tutto (quello che vediamo almeno) é riuscitissimo.
Prendere dei francobolli in 16 millimetri, alcuni dei quali in bianco e nero, e resituirli alla gloria del 4K a pieni colori. Rimetterci nelle orecchie non solo la musica (più o meno perfettamente registrata in studio) ma anche ogni singolo atomo di discorso grazie a un avanzatissimo sistema di machine learning. Viene davvero da rimettere in discussione il concetto di reale.
Una cosa impensabile quella non solo di restituirci un tempo passato, ma uno degli ultimi abbracci creativi/creatori dei Beatles. Avreste mai pensato di vedere canzoni nascere dal nulla sotto i vostri occhi? Qui succede, e la canzone é Get Back, mica I bambini fanno oh.
In curioso gioco di scatole, tempo e passato hanno un ruolo importantissimo anche all’interno di questo lucidissimo e lunghissimo flashback: i Beatles sono sotto pressione, hanno poche settimane per produrre un output (prima uno show televisivo, poi, finalmente, un disco), con l’intenzione di tornare a esibirsi live come non facevano da anni. Prima che la loro figura paterna surrogata, Epstein, morisse. I fantasmi di quelli che erano e gli echi di chi potrebbero diventare entrano in feedback temporale in ogni nota e parola che si scambiano, la pressione monta fino al punto in cui sembra disgregare il legame elettrico tra i quattro.
Quando George Harrison lascia il gruppo (per qualche giorno), l’uomo che deve arrogarsi il peso della visione artistica di questo lavoro, Paul McCartney ovviamente, deve raddrizzare la rotta e il proprio potere demiurgico, deve riconoscere che é un tassello, anzi solo un fuso in questo incredibile telaio. In tutta questa abbondanza di materiale, quasi da reality show ante-litteram, é curioso come siano i momenti non coperti (le riunioni del gruppo, le discussioni lontano da cineprese e microfoni, i non detti) a definire gran parte della forma del racconto, o, se vogliamo chiamarlo cosí, di questo esteso frammento di memoria, e a lasciarci l’ombra del mistero - altre zone inesplorate della storia che non ci é dato osservare.
La scelta che salva tutti é cambiare rotta: fare i conti con chi erano non é (ancora, forse) necessario, ma votarsi all’atto creativo. Quello che scatta dopo é la vita stesso, e il tempo che, come un piccolo miracolo, si riavvolge e si mostra per noi.
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…TICK TICK BOOM
Non vi nascondo quanta ansia mi abbia regalato questo bellissimo film. Per certi versi, é proprio l’altra faccia della medaglia di Get Back, anche se sono entrambe storie vere (ok, questa non é cosí vera): Jonathan Larsen é solo contro il mondo, all’inseguimento del sogno di mettere in scena i propri musical, diventare un grande e riconosciuto artista, realizzare il proprio potenziale. Solo che i 30 anni incombono. I Beatles al tempo di Get Back erano abbastanza lontani dall’obiettivo: per Larsen é questione di giorni.
I 30 sono una piccola morte, che si arrampica in cima ai cumuli di morte che lo circondano: la piaga dell’HIV nella New York di inizio 90s, i rapporti personali compromessi dal suo idealismo, la Soho gentrificata che infesta i diner pure di domenica, e poi la tentazione di compromettersi, abbandonare il sogno artistica e accettare un lavoro “da adulto”. Ma soprattutto la morte vera, quella che il vero Larsen avrebbe trovato cinque anni dopo, a un passo dal realizzare definitivamente il suo sogno e vedere in scena la sua opera Rent.
Il tempo é una condanna quanto lo spazio é una benedizione: il primo impone date di scadenza alla creativitá e si affaccia alla porta chiedendo denaro, l’altro é il terreno fertile dell’ispirazione in ogni situazione. Come in Get Back, l’atto creativo si realizza quanto le circostanze “terrene” vengono superate.
Anche … Tick Tick Boom come È stata la mano di Dio rimette in discussione l’origine e l’aspirazione di diventare creatori, artisti, e cosa significa essere umani in questo contesto. Il tempo non scorre e basta in questi film, invece é il teatro di nessi casuali ed eredità artistiche/divine che sembrano inevitabili: Maradona e Fellini per Sorrentino, Sodenheim per Larsen, Larsen per Lin Manuel Miranda.
Insomma, una storia che sembra solo all’inizio.
WEST SIDE STORY
E a proposito di eredità artistica.
Immaginate fare un mestiere per cinquant’anni per prepararsi a fare una cosa sola. Abbiamo scongiurato Steven Spielberg di fare un musical dai tempi di 1941, poi ancora con Indiana Jones e il Tempio Maledetto, ma non sarebbero stati necessari neanche questi esempi espliciti: basta guardare il suo amore profondo per l’unione di spettacolo visivo e musica, l’armonia quasi musicale delle sue messe in scena, la chiarezza melodiosa con cui ci guida attraverso costruzioni visive di incredibile complessità con una facilitá disarmante.
Alla fine, ci é arrivato.
West Side Story é uno dei suoi più grandi traguardi, é la summa di tutto il suo cinema e probabilmente anche qualcosa di più. É Spielberg che probabilmente chiude una grossa parentesi e raccoglie la propria di ereditá artistica.
Non sto a dilungarmi sulla commovente grandiosità della scena d’apertura, di America e di tutto il resto. La domanda che mi sembra più interessante da farsi é come si sia posto Spielberg davanti alla dolorosa ferita che questa storia, a sessant’anni dal debutto, continua a costringerci a guardare - perché é ovvio, razzismo, integrazione e violenza sono ovviamente più vivi che mai.
Se il regista ha sovrascritto le storture e goffaggini dell’originale (l’assenza di cast Latino, le brown face, eccetera), ha anche fatto quello che riesce meglio all’ennesima potenza: questa realtà indigeribile é trasfigurata con un linguaggio come quello del musical intrinsecamente elevato, reso ancora più ultra-reale dall’energia della sua macchina da presa.
Spielberg si — anzi, ci muove nel racconto/racconto lasciandoci intravedere una realtà armonica e pacificata, perfetta, una possibilità (anche attraverso gli specchi, importantissimi pure in questo film). Ma allo stesso tempo ci condanna alla riflessione con pesantissime inquadrature sbilanciate, fatte di vuoti incolmabili e mancanze che non dovrebbero esistere.
E poi sí, é tutto in quell’ultima inquadratura.